Incontriamo Massimo Donelli, giornalista professionista dal 1976 e docente di Giornalismo e informazione digitale e di Broadcasting Management.
Nelle posizioni che ha ricoperto senza dubbio era importante una scelta accurata del materiale iconografico, che contemplasse da un lato criteri di qualità, dall’altro incrociasse l’interesse dei lettori e lo stile della testata. Quali sono in genere i criteri ispiratori ed il metodo che consentono di soddisfare questi requisiti? Quali le fonti di “approvvigionamento” delle immagini?
Non è facile sintetizzare la risposta, ma ci proverò. Se parliamo di fotogiornalismo d’acquisto, il criterio selettivo che ho sempre adottato è uno e uno solo: il contenuto news. Di fronte a una foto “che parla” o a uno scoop non ci si pongono problemi di tecnica e qualità, prevale, appunto, la forza del racconto. O, magari, l’esclusività. Se parliamo di reportage pianificato, invece, è possibile unire contenuto e qualità: basta ingaggiare un grande e collaudato fotogiornalista. A Epoca avevo giganti come Mauro Galligani e Giorgio Lotti; e potevo contare sulla collaborazione di talenti come Massimo Sestini, Maki Galimberti, Pigi Cipelli, Stefano Torrione. Risultati garantiti. Sempre. Bel privilegio, no?
Considerando anche il suo punto di osservazione privilegiato come docente universitario, come nel corso di questi anni il paradigma di internet ha cambiato queste modalità per l’acquisizione e l’editing del materiale fotografico, nuovi metodi, ruoli, professioni?
Internet ha reso tutti scrittori e tutti fotografi. Basta avere uno smartphone, una dozzina di app e via a chattare e a scambiarsi immagini. Ma viene difficile definire quei testi farciti di emoticon scrittura; così come viene difficile parlare di fotografia di fronte a immagini spessissimo ritoccate… Diciamo che il web rappresenta un’ottima fonte per costruire, se si hanno i mezzi e la volontà di farlo, ottimi contenuti giornalistici. Ma è solo una fonte, appunto. Non un contenuto buono da copiaincollare. Purtroppo c’è totale concordanza temporale tra boom di internet e crisi dei media. E così giornali e TV, per risparmiare, attingono a pieni mani dal web quando si tratta di immagini fisse e in movimento: il tuttogratis è il veleno che ha intossicato le aziende editoriali.
I circoli fotografici come abbiamo approfondito nelle celebrazioni del 90° della fondazione del CFM (1930-2020) spesso sono una terra di mezzo tra il mondo amatoriale e quello professionale, fornendo agli associati occasioni di confronto con autori importanti o di tendenza ma soprattutto costituiscono una “scuola elementare” per imparare a utilizzare la “cassetta degli attrezzi” del buon fotografo. Sulla base della sua esperienza, e dell’evoluzione che ha subito in questi anni il mondo della fotografia e della pubblicistica in generale, come vede l’evoluzione di questo ruolo dei circoli? Cosa auspicherebbe per renderli più efficaci e, per usare un detto tipico “avvicinare la scuola al mondo del lavoro” ?
L’Italia nel Rinascimento era la culla dell’immagine. Un primato che ha conservato per secoli. Poi Hollywood ha preso il sopravvento. E noi ci siamo rifugiati nella cultura della parola. Almeno dal punto di vista del racconto e di quello giornalistico in particolare. Mentre il design italiano e la moda italiana conquistavano il mondo proprio con la forza dell’immagine, il giornalismo italiano, a parte la meravigliosa eccezione di Epoca, ha voltato le spalle alla fotografia. In primis i quotidiani, tra i più tetri e noiosi del pianeta Terra… In questo contesto, i circoli fotografici oggi rappresentano una risorsa preziosissima. Chi li frequenta acquisisce le conoscenze tecniche fondamentali e si ingaggia per migliorare in continuazione i risultati. La fotografia dovrebbe diventare materia di scuola già alle medie. I circoli potrebbero offrire un ottimo supporto didattico. E qualche stage nei giornali potrebbe fare il resto. Ossia, ridare fiato al fotogiornalismo, oggi morente.
Spesso diciamo che il fotografo “dilettante” ha il grosso vantaggio di poter studiare e documentare la sua “prossimità”, avendo tempo e modo più del professionista per analizzare temi, eventi, trasformazioni che avvengono intorno a lui, nella sua città, nel suo quartiere. Che spazio e interesse può avere la documentazione di questa “prossimità locale” nel contesto di eventi più generali ed “epocali” per i canali informativi?
Ai miei giornalisti giovani ho sempre detto: il buon giornale è quello con le finestre e le porte spalancate; bisogna che il fuori entri dentro, altrimenti finiamo per parlarci addosso, per cadere nella trappola dell’autoreferenzialità. Se oggi facessi ancora il direttore di giornale sarei felice di offrire una chance a chi ama la fotografia e vuole cimentarsi nel racconto giornalistico. Sarebbe bellissimo federare i circoli fotografici di tutta Italia e trasformarli in sentinelle sul territorio, a caccia di news da raccontare, appunto, per immagini, sfruttando il vantaggio della prossimità ai fatti.
Una domanda che può sembrare retorica e banale, ma sappiamo spesso che le cose basilari spesso ovvie sono le più ignorate. Cosa consiglierebbe oggi ad un giovane appassionato di fotografia per crescere, prepararsi ed affermare il proprio stile nell’arena competitiva dei media moderni? Studiare storia e cultura fotografica, workshop con grandi nomi, assistente di studio, viaggiare?
Il giornalismo è un lavoro artigianale. Il fotogiornalismo idem. Suggerirei di andare a bottega da un bravo fotogiornalista, di essere pronto a fare per lui anche i lavori più umili e di rubargli il mestiere con gli occhi. Non credo in altre strade. Credo nei bravi maestri. Un po’ incazzosi, di fondo generosi, capaci di insegnare, ma anche di sgridare e lodare. Credo, insomma, nel merito.
Per chiudere, qualche suo aneddoto che descriva il rapporto con grandi fotografi.
Ho un ricordo che non mi abbandonerà mai. Atlanta, Georgia, Stati Uniti d’America, 19 luglio 1996. Dopo aver studiato nel dettaglio il planning della cerimonia d’apertura della XXVI Olimpiade e osservato da giorni la luce solare all’ora prevista per l’ingresso della fiamma olimpica, Galligani è sul gradino estremo del Centennial Olympic Stadium, in mezzo ai comuni spettatori e lontanissimo dai fotografi di tutto il mondo ammucchiati ai bordi della pista di atletica. Da lì Mauro realizza un tris straordinario. Primo scatto, struggente: l’intero catino del Centennial e sullo sfondo, in controluce, tra le ultime striature di tramonto, la skyline di Atlanta. Secondo scatto, festoso: mille bagliori di flash sugli spalti e, in mezzo al campo, centinaia di ballerini per la coreografia d’apertura. Terzo scatto, emozionante: tutti gli atleti di tutte le squadre, incorniciati dall’anello della pista, e, in basso a sinistra, il tedoforo che entra correndo in corsia due. Tre immagini bellissime, uniche. Ma l’ultima è davvero onnicomprensiva, indimenticabile, potente. Un capolavoro di racconto. Una strepitosa esclusiva mondiale di Epoca, che allora dirigevo. A ripensarci, mi entusiasmo ancora. E mi commuovo. Perché ho lavorato in dodici diversi giornali, amandoli tutti. Ma nessuno mai come Epoca.