Ritorno ad Arles dopo quattro anni di assenza dovuti alla pandemia di coronavirus. Arles entra nel sangue, manca come l’aria anche solo di anno in anno.
E’ del 1970 la prima edizione ideata dal fotografo Lucien Clergue, dallo scrittore Michel Tournier e dallo storico Jean-Maurice Rouquette. Ogni anno, da allora, con la sola eccezione del 2020, nella storica cittadina di Arles, tra la Provenza e la Camargue, si perpetua il rito della fotografia condivisa, quella delle grandi mostre del circuito ufficiale e quella del circuito OFF, frequentemente foriero di nuovi linguaggi. E’ un momento di incontro e di riflessione tra addetti al settore ed appassionati di fotografia provenienti da ogni parte del mondo; fotografi, curatori, intellettuali, filosofi, sociologi e creativi sono apportatori di quel pensiero necessario da discutere, sviscerare e assimilare e che restituisce nuove energie, alimenta nuovi progetti ed indica le nuove prospettive del domani.
Se ogni edizione ha un proprio focus, ecologia, femminismo e stato di coscienza sono il fulcro di questo 54° festival. Decido quindi di partire con l’ecologia, tema recentemente affrontato dalla FIAF con il progetto nazionale “Ambiente Clima Futuro”. La Fondazione Rivera-Ortiz offre una trentina di esposizioni-installazioni sul rapporto tra uomo e ambiente. Il titolo “Grow Up”, crescere, è tutto un programma e offre riflessioni sulla biodiversità e sulle tensioni ambientali, incrociando questioni politiche, economiche e sociali, passando per quelle postcoloniali e toccando finanche l’impatto della devastante coltivazione su vasta scala finalizzata alla produzione di droghe.
Il secondo giorno è appena sufficiente a visitare le mostre del “Park des Ateliers”, esterno al centro storico, sorprendente recupero architettonico con cambio di destinazione d’uso da manifattura a centro di ricerca, produzione e promozione dell’arte contemporanea multidisciplinare. Alcuni "big" sono qui: Diane Arbus presso il Luma, con la straordinaria “Contellation” e Gregory Crewdson, con “Eveningside 2012-2022” al padiglione Mécanique Générale. La prima è una vera e propria installazione immersiva e straniante di 454 foto (anche tutte le sue iconiche!) al fine di rivelare non solo il significante, ma anche ciò che immediatamente non traspare e che, tuttavia, tiene uniti gli scatti come su di una gigantesca ragnatela: il caso, il caos e la ricerca. Non c'è quindi alcun senso di visita per “Constellation”. "Come Diane Arbus a New York, il pubblico è invitato a passeggiare, passare, girare e attraversare e a specchiarsi, per ritrovare il proprio volto, tra i tanti già ritratti. Non esiste un percorso tipico, ma un'infinità di possibilità. Ognuno può creare la propria esperienza in quella impiccagione casuale e iniziatica" (dal sito di Luma). Un'operazione concettuale non di poco conto sulla quale riflettere.
Quella di Gregory Crewdson, che ha fatto della fotografia staged della Middle America il suo segno autoriale distintivo, apre insolitamente con “Fireflies” (lucciole) e da questa serie di foto, pulsante ed immediata, il cui controllo sfugge, per sua natura, al fotografo, parte tutto il ragionamento sulla sua fotografia teatrale, posata, calma (in apparenza), giocata sul sottile confine tra realtà e finzione, delle serie successive che richiedono la stessa lunga e meticolosa preparazione di un set cinematografico. E mentre si percorrono le sale, occorre fare attenzione a non finire letteralmente risucchiati all’interno delle gigantografie che avvolgono a 360 gradi gli spettatori. Magnifica tutta, ma magnifica proprio partendo dalle lucciole, serie tenuta nascosta per oltre un decennio, ma sopraffina chiave di lettura iniziale. Bello… bello quando oltre al vedere, si hanno spunti per tanto, tanto altro.
Ma al Parc des Ateliers c'è molto, ma molto di più da scoprire. “La pointe courte, des photographies au film” con le installazioni provocatorie di Agnès Varda, regista, sceneggiatrice e fotografa, una dei Big di questa edizione, che utilizza negativi fotografici per le sue creazioni 3D (un uso ulteriore e diverso del materiale fotografico), e con la potente “Patatutopia”, metafora della vanitas, del tempo e della trasformazione delle cose attraverso le fasi della vita del tubero, dalla fase della freschezza, alla grinzosità, alla germogliazione finale che genera nuova vita.
La scomparsa – la morte – è una presenza (si scusi il gioco di parole) persistente nel lavoro di Rosangela Rennó, “Sur les ruines de la photographie”, vincitrice del premio “Women in motion” 2023. L'artista, mettendo in discussione la natura delle immagini, le preleva dal passato, le assembla e le ricompone, cancellando identità e sovrapponendo velature. Dalle vecchie foto, al giorno d’oggi ormai danneggiate e indebolite, si affacciano soggetti esili e patiti di un interminabile passato che sembrano attendere, senza speranza, un futuro inesistente. Rennó ci porge una potente riflessione: la fotografia non serve proprio a perpetuare il passato? Non costituisce la base della “Memoria”, personale e collettiva? E’ doveroso cercare di sviscerare anche il punto di vista dell’Autrice.
Sempre al Parc des Ateliers, per me come un grande giardino incantato dove è bello scoprire e gustarsi il retro pensiero degli artisti concettuali, Carrie Mae Weems, militante afroamericana, produce un’arte politica che riflette sulla condizione della comunità nera negli Usa e in particolare delle donne, mescolando foto e video, testi e tessuti. La sua mostra è intitolata 𝘛𝘩𝘦 𝘚𝘩𝘢𝘱𝘦 𝘰𝘧 𝘛𝘩𝘪𝘯𝘨𝘴... ed è da gustarsi prendendosi tutto il tempo necessario.
Rachel Rose, attraverso lo spettacolare audiovisivo “The last Day”, formato da migliaia e migliaia di fotografie dai colori psichedelici che hanno come soggetto i giocattoli dei figli, immagina le sette epoche della storia della Terra, dai primordi, con i dinosauri, alla sua fine assimilata ad un tappeto risplendente da migliaia di led.
Poi, a fine di un giorno intensissimo, un meritato Pastis ghiacciato in compagnia di amici ritrovati, con scambi di impressioni su quello che si è visto. Il confronto è utile proprio per metabolizzare e fissare i pensieri facendoli propri.
Infine, il terzo giorno, il ritorno presso il centro di Arles, con le mostre della piazza principale, quella della biglietteria, del bookshop e del punto informazioni: il polmone dei Rencontres de la Photographie. Apre il tour (de force) la fotografia nordica all'Eglise Saint-Anne, immersione totale in una dimensione politica dove Autori ed Autrici di ogni età, utilizzando sia approcci documentari che concettuali, riflettono il contesto socio-politico dello stato sociale. La mostra è volutamente centrata su di una posizione femminista che dà voce ad artisti che interpretano diverse esperienze ed identità.
Si trova in questo spazio la foto-icona di Arles 2023 della giovanissima autrice Emma Serpaniemi, opera facente parte di una serie di autoritratti, vera e propria spallata ad un sistema ancora fortemente basato sulla distinzione gender. Il filo del telecomando dell'otturatore è mantenuto nelle inquadrature, metafora della volontà di detenere il pieno controllo della situazione.
“Casa Susanna”, tra le esposizioni che rientrano nel settore “A states of consciousness", merita senz’altro la visita presso l’Espace Van Gogh. E’ una selezione della raccolta di foto, risalenti agli anni 50/60, casualmente trovate da due antiquari di NYC nel 2023, riguardanti soggetti maschili - stimati professionisti, mariti e padri – in abiti femminili. Erano tempi in cui certe tendenze intime ed affettive, difformi dal politicamente corretto, non potevano essere vissute alla luce del sole. Quella ristretta, anonima e silenziosa comunità aveva preso a frequentare una casa isolata di campagna non lontana da New York, messa a disposizione da uno di loro, nella quale poter essere completamente liberi di essere finalmente solo se stessi. Completano la mostra un docu-film (si trova anche su YouTube) ed uno splendido e, per certi versi, tenero e struggente catalogo. Una grande, grande mostra, arricchita da testi e didascalie alle singole foto, molte delle quali, per forza di cose, polaroid a sviluppo immediato.
Infine, la fotografia degli emergenti nella magnifica (è dir poco) Eglise des Frères-Précheurs. Da sempre sostenuta dai Rencontres, anche quest'anno i dieci artisti selezionati dal premio “Discovery Award Louis Roederer” sono esposti in un'unica mostra curata da Tanvi Mishra. Si percepisce subito la forza di queste opere che si lasciano apprezzare per la freschezza, la sfrontatezza e per la ricerca di nuovi linguaggi visivi.
Spostandoci, poi, verso un nuovo punto di interesse, non passa inosservata la straordinarietà della Galleria Camp (circuito OFF) che tratta unicamente fotografia giapponese. Ci sono immagini nientepopodimeno che di Daido Moriyama, Noriko Shibuya, Tatsuki Sugimoto, Koji Onaka.... Per gli appassionati di fotografia orientale come me, è un vero e proprio colpo al cuore.
Poi un salto al progetto di Hannah Darabi che ha pazientemente ricercato, fotografandoli, i segnali della diaspora iraniana verso la California.
Ho riportato di getto le mostre salienti, ma sono state molte, molte di più quelle visitate nei giorni di permanenza ad Arles, sia rientranti nel circuito ufficiale che le tante dell’OFF, compresa quella della bravissima Antonella Monzoni, “La bellezza silenziosa”, presso la galleria CirCa, in rue de la Roquette 2.
Cosa rimane dopo aver visitato Les Rencontres? Rimane un senso di appagamento, certo, ma viene anche tanta grinta, voglia di conoscere, di sapere, di fare e, soprattutto, di capire. Capire fatti e situazioni, ma principalmente i linguaggi, più di uno, della nostra contemporaneità, perché solo conoscendoli è possibile avere le chiavi per arrivare alla comprensione del nostro mondo. Tutto cambia velocemente, chi si ferma è perduto e dipende dall’interpretazione fornita da terzi.